Lizzano in Belvedere

Lo strano caso di Maria Oliva Crudeli

Si dice sia una fola, una leggenda. Ma come tutte le leggende prende spunto da fatti realmente accaduti e da strani casi che nessuno sa spiegare.
Sul Monte Belvedere, proprio sotto le rovine del Castello, c’è (o c’era) un curioso solco nella terra a forma di croce. Straordinaria croce, perché, raccontano i vecchi montanari, per quanto venga calpestata, raspata, riappare sempre tale e quale; e sembra che questo solco sia l’orma lasciata dal corpo di una donna. Ma andiamo con ordine.

Siamo nel novembre del 1778 e la nostra protagonista si chiama Maria Oliva Crudeli (o Crudelli) ed abita a Rocca Corneta.
Il 5 novembre, Maria, che aspetta un bambino, scompare da casa e il suo corpo viene ritrovato solo alcuni giorni dopo (chi dice fu ritrovato l’8 novembre e chi dice il 14 novembre, ma è un elemento trascurabile nel nostro racconto) da due pastorelli sul Monte Belvedere. Fine orribile quella di Maria: il corpo fu ritrovato vestito della sola camicia e bruciato in alcune parti.
Cosa poteva essere successo?

Un evento così eccezionale, per di più in un piccolo paesino, dà subito adito a voci, ai si dice, a racconti che, di bocca in bocca, si fanno sempre più fantasiosi; i compaesani hanno continuato a parlarne per generazioni aggiungendo o deformando i particolari, mescolando al vero qualche pizzico di malignità.
Se il fatto fosse successo ai giorni nostri, il primo indiziato sarebbe il marito. E fu così anche allora, ma il marito era assente da casa: si trovava al casone, sulla Riva, oltre il Dardagna a sorvegliare il fuoco per seccare le castagne. Saputa della scomparsa della moglie, fu il primo a cercarla dapprima nei casolari vicini e poi avvisando il parroco e il Massaro, che aiutati dagli uomini del paese cercarono la povera Maria per fossi e fiumi, fino al triste ritrovamento.

Il particolare che accese di più la fantasia, fu il fatto che la donna fu trovata con il corpo bruciato in alcune parti. Forse era stata colpita da un fulmine? A parte il fatto che, almeno nel 1778, a novembre è difficile che ci siano temporali e fulmini, come mai si trovava di notte, sulla cima del Belvedere, con la sola camicia addosso?
E da qui, la fantasia popolare suppose che la donna fosse stata uccisa da un’altra parte, vittima di uno di quei delitti che oggi chiamiamo passionali, insomma Maria aveva un amante che in un impeto d’ira la uccise e cercò di bruciare il cadavere. Potrebbe essere, ma perché portare il cadavere a oltre due miglia (oltre quattro chilometri) di distanza, in salita, con fatica e con la possibilità di essere visto dagli abitanti dei casolari sparsi lungo il cammino? E poi perché depositare il cadavere nel punto più aperto e visibile, in un prato senza alberi e senza grotte? Non era più facile nasconderlo nei pressi del delitto, magari in una tana o sotto un cumulo di sassi?

Ve lo dico io come è andata: è stato il diavolo a guardia del Castello. Certo, in paese lo sanno tutti. La voce, il dittaggio come diciamo in Appennino, è corsa di casolare in casolare per molto tempo.
È andata così. Si diceva che una volta, nel pozzo del Castello del Belvedere, era nascosto un tesoro ed era custodito dal diavolo. Si diceva che il diavolo era disposto a cedere questa immensa ricchezza in cambio di una donna giovane, incinta e con il nome di una pianta. Si diceva che una famiglia, attratta dal tesoro venne a patto con il diavolo.

Fu facile per questa famiglia arrivare al casolare di Maria, di notte e con il marito lontano, e rapire la giovane, caricarla su un mulo e consegnarla al Diavolo in cambio del tesoro.

In paese ci fu anche chi disse di aver visto i muli portare via il tesoro: due o tre some di piastre d’oro! E alcune di quelle piastre furono usate, sempre secondo le voci di paese, per corrompere il Questore, che venne da Vergato ad indagare sul fatto e che diede senza difficoltà il permesso di seppellire la salma.
Addirittura, sembra che le piastre d’oro siano state viste in mano ad alcuni membri della famiglia mentre giravano per il paese; e che solo questa famiglia avesse un timbro di voce particolare, “il marchio del Diavolo”.

E la povera Maria? Dopo che fu consegnata al Diavolo, lo stesso l’afferrò ma, visto uno scapolare della Madonna che la poveretta aveva indosso, le diede uno schiaffone così forte da farla cadere dalle mura del castello e lì rimase, morta, a braccia aperte, riversa con la testa in basso, dieci passi sotto le mura a ponente.

Esattamente dove oggi troviamo una croce in legno e dove, si dice, tutti gli anni, il giorno si San Martino (11 novembre) nascano strani fiori a forma di croce e spuntino sempre nello stesso posto.

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Poli Pasquale, un giorno risoluto…

A Monteacuto lo chiamavano “il matto”, un soprannome indovinato se per “matto” si intende chi fa cose che gli altri non fanno: caratteristica del genio.

La storia di Pasquale parte da molto lontano, quando Monteacuto era un ricco castello al confine tra Emilia o Toscana, anzi tra Stato Pontificio e Granducato di Toscana e i suoi nonni vendevano stoffe, acquistate nel Granducato e rivendute a caro prezzo al castello, tanto che anche il Calindri magnifica le vesti di queste donne: “Non si crederebbe prima di vederlo con quanto lusso vadano vestite le donne d’ogni condizione”.

Cento anni dopo, il nostro Pasquale gira ancora per paesi esercitando un traffico più modesto ma sempre redditizio: non è facoltoso ma di certo benestante. E intraprendente, e forte, e gagliardo: avrà tre mogli nella sua lunghissima vita, ma non figli a quanto si racconta.

Un bel giorno, Pasquale incomincia a dire che bisogna portare l’acqua in paese; ma nessuno gli dà retta. Insomma, come si poteva dar retta ad un discorso del genere? Roba da matti! Certo, sarebbe stata una bella cosa, ma come fare? Negli anni dell’Ottocento, quando si svolgono i fatti che andiamo a raccontare, Monteacuto è un paese nato dalla trasformazione dell’antico castello medioevale, costruito su uno strettissimo crinale roccioso con pareti a strapiombo sui torrenti Silla e Baricello. Sorgenti? Nessuna e nemmeno si poteva sperare di trovare acqua scavando pozzi nelle pietre.

C’era, a dire il vero, una sorgentina in fondo al borgo Le Tegge, ma ai primi caldi si seccava. Bisognava andare lontano, scendendo fino alla Fontanina o nell’ altra valle, alla fonte della Riva. Oppure, accontentarsi di “quella che manda nostro Signore”: la pioggia, infatti tutti avevano la cisterna, per raccoglierla dai tetti, come si faceva ai tempi del Castello.

E poi, l’acqua va a la bassa. Chi poteva portarla in salita fino al paese? Una fonte più in alto era ai Sodi, ma è lontanissima, bisogna passare tanti fossi. Era quella l’acqua che Pasquale voleva portare a Monteacuto? Roba da matti!

Ma Pasquale, ormai ultra ottantenne, raccoglie la derisione e la trasforma in sfida girando per i monti a misurare, a ispezionare, a progettare. Va giù in fondo alla valle e risale dalla parte di Pianaccio, perché di là vedeva in panoramica tutta la costa interessata all’ impresa: Donna Morta, i Sodi, la Caffa, la Canala del Frassino: ed eccola là la fontana, ed ecco l’idea: se si utilizza la maggior quota portando un condotto in leggera discesa evitando di finire più in basso del punto di arrivo, l’acqua sarebbe arrivata in paese.

Il nostro Pasquale quindi mette una mano sul cuore e l’altra sul portafogli e assolda degli operai che vengono scaglionati lungo il percorso e lui, dall’ altra parte della valle, con urla e gesti fa spostare più su o più giù. Chissà quante camminate! E quante riflessioni: una canaletta in terra battuta non avrebbe retto l’acqua per un tragitto così lungo. Come fare?

Pasquale si rimette una mano sul cuore e l’altra sul portafogli e acquista una grossa partita di coppi, forse a Grecchia dove c’era la fornace più vicina. A Monteacuto nessuno conosceva i coppi, i tetti erano fatti di piagne e non si usavano altri laterizi. Quando i paesani vedono arrivare una lunga fila di muli carichi di coppi, capiscono che Pasquale fa sul serio. Roba da matti!

Quindi, una bella mattina, Poli Pasquale, ormai risoluto, sale alla fontana dei Sodi per cominciare l’opera: sistema una piccola presa e appoggia il primo coppo: l’acqua si incanala anche sul secondo coppo che era stato sistemato sotto il primo. Così, giorno dopo giorno, il lavoro va avanti superando in maniera ingegnosa i vari ostacoli che si presentano. Ma c’era ancora da passare la terribile Canala del Frassino, ma niente paura! Bastò un muretto ben ancorato alle sponde rocciose, un riempimento di terra, e i coppi rossi proseguirono la loro marcia.

A questo punto, i montacutesi iniziarono a pensare che “il matto” ci poteva riuscire a portare l’acqua in paese.

Ma un giorno, quando Pasquale arriva in cantiere rimane esterrefatto: gran parte della sua opera era stata distrutta. Pover’uomo! Era ovvio che il danno non poteva essere stato causato da un animale né da un accidente naturale. Soltanto uomini potevano averlo fatto. Ed erano andati di notte. Ma perché? Pasquale non si dava pace, non capiva…non stava facendo nulla di male, anzi! Stava portando un servizio al paese e perdippiù senza chiedere soldi a nessuno, ma usando dei suoi.

Pasquale si rimette all’ opera, anche se nessuno saprà mai chi è stato: in paese si disse che i proprietari dei terreni attraversati non volessero intrusioni. Altri pensarono che i guastatori fossero i giovanotti del paese, che avevano una buona ragione per far danno: alla Fontanina, a far provvista d’acqua, andavano solitamente le ragazze con le brocche e i barilotti. E là, lontano dagli occhi della madre, vagheggiavano e frascheggiavano più o meno ritrose con i giovanotti, sempre solleciti a quell’ appuntamento serale. Insomma, la fontana era galeotta.

Un bel giorno, “il matto”, coppo dopo coppo, arriva alle porte del paese; e con lui arriva l’acqua, che correva allegramente. Alla vista dell’acqua, i paesani fecero una gran festa, e anche il Sindaco si convinse della bontà dell’opera tanto che ordinò di sistemare a spese del Comune la canaletta provvisoria e di prolungarla fino a Fossato, in centro al paese, dove fu costruita una bella fontana.

Poli Pasquale, chiese che sulla fontana, fosse posata una lapide con una poesia scritta da lui a ricordo della sua opera:

ANNO 1883, 85 DI SUA ETÀ

POLI PASQUALE UN GIORNO RISOLUTO

CERCO QUEST’ACQUA E FECE IL SUO LIVELLO

PER CONDURRE QUEST’ACQUA A MONTE ACUTO

FECE IL DISEGNO E FECE LO STRADELLO

NESSUNO CREDEVA CHE SU QUESTO MONTE

CHE SI DOVESSE CONDUR SI RICCA FONTE

SE FECE DA INGEGNERE E FE LA VIA

PREGHIAM ALMEN PER LUI GESÙ E MARIA

Che il nostro “matto” fosse anche poeta?

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