Quando si raccontano avvenimenti, fatti realmente accaduti c’è sempre da raccontare un PRIMA e un DOPO. E generalmente il DOPO non è mai uguale al PRIMA. Succede anche con questi avvenimenti, scanditi da tanti PRIMA e un unico DOPO, che ha lasciato una ferita ancora oggi aperta, che (anche se fa male) va ricordata, ma soprattutto raccontata, perché cose così non devono più succedere.
Il nostro racconto parte dall’inizio del Novecento e Gaggio Montano è un paesino sull’ Appennino come tanti, dove la terra dà appena il necessario per vivere e dove l’ emigrazione sta lentamente spopolando il paese: tanti emigrano, o forse scappano per poi tornare, o magari troveranno lavoro e anche una moglie, e allora al paese non torneranno più. Si stima che solo un terzo di chi partiva faceva poi ritorno, una sorta di emigrazione temporanea. In questo contesto di spopolamento fa capolino la figura di Don Meotti, parroco del paese, una figura carismatica che tanto farà per la comunità: sarà suo il compito di conservare il legame degli emigranti con il territorio e le tradizioni locali attraverso, ad esempio, la fondazione di unioni parrocchiali. Un paese a vocazione agricola, anche se la terra dà solo il necessario per vivere. Una vita di miseria, ma dignitosa.
Poi, succede qualcosa che cambierà la storia non solo dei paesi d’ Appennino ma dell’ Italia.
E’ il 28 ottobre 1922: le camicie nere marciano su Roma e il Re consegna l’ Italia a Mussolini. E allora anche noi indossiamo la divisa da Balilla o da Giovani Italiane e proviamo a vedere come si viveva nel ventennio fascista.
A Gaggio c’è una casa, nel borgo vecchio, che riporta una vecchia scritta “Cuoio-Scarpe-vino” e la sosta davanti a questa insegna vintage ci dà il modo di fare un’ ideale salto indietro nel tempo. Tutto l’Appennino lavora la terra, i più fortunati hanno gli animali e, a quote più basse, anche un po’ di vigna. Soldi ne girano pochi, un bracciante agricolo porta a casa 300 lire al mese. Il sogno di tutti, quello che meglio rappresenterà l’epoca, è il biglietto da mille lire. Più che un biglietto, un lenzuolo: anni addietro trovai nel solaio dei nonni alcune monete e il famoso biglietto da mille lire e per curiosità l’ho misurato. E’ lungo 23 cm ed alto 13 cm, enorme se confrontato con la cartamoneta degli euro.
Negli anni del fascismo, qui in Appennino si apre una straordinaria possibilità di avere uno stipendio fisso: lavorare alla costruzione della Ferrovia Direttissima che unirà Bologna con Prato. I primi lavori risalgono addirittura al 1882, quando vengono affidati all’ Ing. Protche (che nel 1864 aveva fatto inaugurare la Ferrovia Porrettana, che iniziava così ad unire l’ Appennino alla città). Passano anni tra lavori iniziati ma mai finiti, progetti fatti e poi rifatti, assemblee per decidere il da farsi. Il progetto definitivo viene approvato nel 1908 e i lavori, però, iniziano e proseguirono molto stancamente. Con l’avvento del regime, nel 1924 il Duce dichiara che la Direttissima diventa opera del regime, anzi L’ OPERA per antonomasia, sarà l’opera che farà conoscere la potenza e la perizia tecnica degli italiani. Nel 1934, il 22 aprile, il primo treno partito da Prato percorrerà l’intero tracciato che verrà poi inaugurato con feste e brindisi da Sua Eccellenza il Re.
Si lavora sei giorni su sette, almeno fino al 20 giugno 1935 (XIII anno dell’ era fascista), quando per la prima volta alle 13 le sirene delle fabbriche e le campane annunciano la fine della giornata lavorativa: si inaugura il sabato fascista. Il sabato fascista (lungi da essere una mezza giornata dedicata al riposo) era amministrato dalle organizzazioni di partito, primi fra tutti l’Opera Nazionale Balilla e Opera Dopolavoro e prevedeva attività culturali e sportive, destinate a tutti, grandi, ragazzi (e ragazze) e bambini (i “figli della lupa”). Considerato indispensabile per la fascistizzazione della popolazione, il sabato fascista fu regolamentato nel 1935 da un Regio decreto. E l’anno seguente venne affiancato dal “sabato teatrale”, con cui il regime voleva avvicinare i lavoratori, in particolare operai e contadini, al mondo del teatro, offrendo spettacoli a prezzi agevolati.
Si organizzano tornei di qualsiasi sport, dalle gare ciclistiche alle corse nei sacchi, dal ping pong al tiro a segno. Grazie alla tessera (che serve anche per lavorare) si hanno sconti su viaggi (generalmente la gita fuori porta, non il viaggio come lo concepiamo noi), cinema, teatro, partite di calcio. Si organizzano anche gite, generalmente la domenica – o in occasione del Ferragosto- che costano poco, si conia il termine “escursione” e di norma il pranzo non era compreso, da qui nasce l’ abitudine del pranzo al sacco.
Poi arriva la seconda data che cambia la nostra storia. E’ un pomeriggio di giugno, sono circa le 18 e la gente si raduna nelle piazze, vicino alle radio, perché il Duce da lì a poco parlerà alla folla. La folla sventola il tricolore, grida un ritmato “duce-duce-duce”, è un crescendo festante. Mussolini si affaccia la balcone di Palazzo Venezia, a Roma, ed inizia il suo discorso rivolgendosi ai “Combattenti di terra, di mare, dell’ aria”.
E’ il 10 giugno 1940, l’Italia entra in guerra.
Quando Mussolini decide di entrare in guerra, è convinto che durerà poco, perché l’alleato tedesco sta avanzando velocemente e vittoriosamente. E’ convinto che “Gli basteranno alcune migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace accanto ai vincitori”. Non sarà così. Ma sarebbe troppo penoso raccontare la guerra, e allora mi piace guardare una foto, forse l’unica foto “bella” (perdonami il termine) della guerra. E’ una foto un po’ sgranata, sono ragazzi che giocano con la neve, avranno sì e no 20 anni, e giocano a Montilocco.
Montilocco, quattro case strette le une alle altre, hanno visto questi ragazzi ridere: ragazzi che arrivavano da lontano- dal Brasile-, male armati, male addestrati, vestiti non certo per fronteggiare l’ inverno più freddo e lungo che la storia ricordi. Arrivano qui nel 1944, anche se il Brasile ha deciso di entrare in guerra due anni prima, non parlano italiano (ma forse anche i montanari di allora, nel 1944, parlavano solo dialetto), forse non capiscono neanche cosa sono venuti a fare qui, così lontano da casa. Quella casa che molti non rivedranno, uccisi all’ Abetaia, dove sorge un bellissimo monumento a ricordo di quei soldati uccisi. Scoprono la neve, giocare a palle di neve, a Monte Loco (come lo chiamano) perché Montilocco assomiglia tanto a Monte Loco.
I ragazzi brasiliani arrivano nel 1944 e la situazione è drammaticamente terribile. Tra l’entrata in guerra accolta da urla festanti e i ragazzi brasiliani che giocano con la neve, c’è una terza data che scombina le carte e cambia tutto.
Una sera, sulle frequenze di Radio Algeri, il generale Eisenhower proclama che l’ Italia ha chiesto l’armistizio alle forze alleate angloamericane. Il generale Badoglio, circa un’ora dopo, proclama l’armistizio. Un proclama volutamente poco chiaro, alleati che diventano nemici, l’esercito allo sbando.
La gente corre in strada urlando che la guerra è finita, si canta e si balla. Perché se abbiamo firmato l’armistizio non ci sarà più la guerra, il paese non sarà più stremato da anni di razionamento. O no?
Non sarà così, perché l’ 8 settembre non segna la fine della guerra. Segna l’inizio della guerra civile.
Beppe Fenoglio in “Primavera di bellezza” (1959) racconta l’8 settembre dal punto di vista di un soldato.
“E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario. Resistere ai tedeschi – non sparare sui tedeschi – non lasciarsi disarmare dai tedeschi – uccidere i tedeschi – autodisarmarsi – non cedere le armi“.
Inizia un periodo terribile, la pagina più buia della nostra storia. Il 1944 è l’anno più duro, con l’inverno più freddo che la gente ricordi. L’autunno no, era stato un buon autunno, da ricordare: i campi avevano prodotto grano, tanto grano. Bisognava addirittura nasconderlo per paura che arrivassero i tedeschi. La Linea Gotica non passa tanto lontano dalle case e ha il suo cardine in Appennino sulla direttiva Monte Belvedere-Ronchidoso-Monte Castello. Il fronte è fermo da mesi lungo questa direzione, sta arrivando l’ inverno e la situazione sembra in stallo.
A Ronchidoso si è formata (a giugno) una brigata partigiana, comandata dal comandante Pietro: Pietro quando arriva a Ronchidoso ha 29 anni e può disporre di circa 30 uomini, molti sono giovani, altri scriveranno pagine importanti per la lotta partigiana.
La popolazione è composta non solo da chi qui ha sempre abitato, ma anche da sfollati che sono scappati da Porretta Terme ma anche da Bologna o Modena per cercare un rifugio più sicuro. Si iniziano a conoscere nuove parole, una su tutte, la più drammatica: si scrive RAPPRESAGLIA, si legge UCCIDETE I CIVILI. E arrivano notizie allarmanti, portate dalle bande partigiane che si spostano da un luogo all’ altro. Raccontano di un paese, forse neanche troppo lontano da qui, in cui i tedeschi hanno rastrellato la popolazione, e ci sono morti, tanti morti, in maggioranza sono donne e bambini.
E’ il 12 agosto 1944, il paese si chiama Sant’ Anna di Stazzema. La furia dei nazi-fascisti si abbatte sulla popolazione, nel giro di poche ore centinaia e centinaia di corpi resteranno a terra, senza vita, bruciati, straziati. Si conteranno 560 morti, di cui Anna, la più giovane, aveva 20 giorni.
Invece il 29 settembre 1944 a Ronchidoso è una giornata di nebbia, c’è anche una pioggerellina leggera. I giorni in quel 1944 si sa come iniziano ma non si sa come (e se) finiranno. Dalla Serra di Ronchidoso sta scendendo una colonna di tedeschi, con un ordine ben preciso: bonificare la zona.
La zona è quella della Linea Gotica, con Monte Castello e Monte Belvedere come capisaldi; i tedeschi però hanno saputo che in zona opera una brigata di partigiani e probabilmente la popolazione, i civili scappati fin quassù alla ricerca della salvezza, li stanno aiutando. Solo due giorni prima, il 27 settembre, la stessa colonna si era resa responsabile dell’ eccidio di Cà Berna, 28 morti, tutto il paese raso al suolo. Si racconta che i tedeschi sono stati attaccati dai partigiani, qualcuno non ha rispettato l’ordine di far passare i tedeschi senza attaccare, e alcuni sono rimasti uccisi. La rappresaglia colpisce tutto il paese, e a Cà di Berna non resteranno che corpi bruciati e case distrutte.
A Ronchidoso, invece, bisogna bonificare la zona: le SS della 16esima corazzata stanno per passare e non possono avere altre perdite, o almeno così la pensa Walter Reder, il Monco, a capo della divisione. Per bonificare la zona, rastrellano tutta la popolazione: a Ronchidoso di Sopra, a Cà D’ Ercole, alla Lama, a Ronchidoso di Sotto, al Cargè, a Cason dell’ Alta.
Lasceranno i borghi bruciare, perché alle case bisogna dare fuoco. Lasceranno corpi straziati, ammassati uno sopra l’ altro e poi bruciati. Lasceranno famiglie distrutte. Lasceranno 69 morti, il più giovane-Renzo-ha 3 mesi, la più anziana-Maria Rosa-ha 85 anni, in un’eccidio tra i più cruenti d’ Appennino.
I corpi non avranno degna e cristiana sepoltura se non nel 1945, quando gli alleati riusciranno a sfondare il fronte e scoprire l’orrore. A Cason dell’ Alta c’è il sacrario, dove sono ricordati i nomi delle vittime e, se si entra, alla destra si trova una targa “Eterna pace a dieci vittime sconosciute”. Infatti a Cason dell’ Alta le truppe trovano dieci vittime a cui non è mai stato possibile dare un nome: forse sfollati, forse partigiani o civili, forse disertori, non lo sapremo mai.
Per l’eccidio di Ronchidoso non ci saranno colpevoli, sarà un eccidio per molto tempo dimenticato. I fascicoli relativi a questo orrore saranno archiviati (insieme ad altri centinaia fascicoli riguardanti le più efferate stragi naziste – Sant’Anna di Stazzema, Fosse Ardeatine, Monte Sole, gli eccidi dell’ Alto Reno) all’ interno di un armadio posto nello sgabuzzino della cancelleria militare, chiuso a chiave e con le ante appositamente rivolte verso il muro. Rimasero chiusi in questo armadio fino al 1994 quando il procuratore Intelisano (che stava seguendo un processo contro Erich Priebke) trovò questo armadio, che prese il nome di “armadio della vergogna”.
Ad Antonio, Tonino di Cà Berna, che mi ha insegnato il valore del ricordo e l’importanza del raccontare per non dimenticare.
#PiediStanchieCuoreFelice
Testo Fabrizio Borgognoni
Settembre 2024
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Per la foto nro 2 Photo Credit Gente di Gaggio nro 9- anno 1990
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